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Giganti a Gualdo Tadino: la pittura torna a raccontare il presente

Dopo la lunga stagione del concettualismo e delle pratiche installative, che avevano spinto l’arte a farsi linguaggio dell’idea più che della forma, la pittura – da almeno due decenni – ha ripreso a parlare con voce propria, tornando al corpo e all’immagine, al gesto e alla materia. Un ritorno che non ha nulla di nostalgico, ma che ha saputo reinventare la figurazione come campo aperto di riflessione e racconto, capace di misurarsi con le iconografie del presente, con i miti popolari, con la tensione costante tra memoria e immaginario digitale. È in questo orizzonte che si colloca la mostra “Giganti. Dipinti e disegni di grande formato dalla Collezione della Fondazione THE BANK ETS”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi, ospitata fino al 16 novembre nella Chiesa monumentale di San Francesco a Gualdo Tadino: un’antologia imponente, non tanto per la dimensione fisica delle opere, quanto per l’ampiezza di sguardo che essa restituisce su una delle stagioni più fertili della pittura figurativa contemporanea.

Il titolo, Giganti, rimanda infatti più alla portata visionaria che non al formato: le opere in mostra non cercano lo stupore, ma la profondità, il confronto diretto con lo spazio, con la densità del tempo e con le nuove forme della visione. il confronto diretto con lo spazio, con la densità del tempo e con le nuove forme della visione. È una mostra che ricompone, come in un mosaico, le diverse anime della pittura di oggi – dalla visionarietà narrativa alla sospensione metafisica, dal lirismo dell’immagine alla sua disgregazione critica – e che restituisce una geografia complessa, fatta di centri e di periferie, di scuole e di esperienze individuali, di generazioni che si sovrappongono senza mai elidersi.

Negli anni Novanta e Duemila, mentre la coda lunga del concettuale continuava a dominare il discorso artistico e la pittura sembrava confinata ai margini, quasi una lingua arcaica costretta a giustificare la propria sopravvivenza, in Italia si andavano però delineando correnti e scuole che ne riformulavano la grammatica visiva, restituendole spessore, urgenza e vitalità. Dall’Officina milanese, dove la pittura ha ritrovato nel paesaggio – urbano, industriale o naturale – un campo di riflessione sulla memoria, sulla percezione e sull’esperienza del tempo, alla Scuola di Palermo, dove il linguaggio pittorico si è ibridato con il fumetto, il surrealismo e la cultura pop, fino alla scena torinese, fortemente ancorata a un realismo critico e attento alle trasformazioni sociali e culturali del presente, e alla scuola romana, che ha riscoperto la classicità come materia viva, reinterpretandola con strumenti e sguardi nuovi: in questo quadro si collocano molti degli artisti presenti a Giganti, testimoni di una figurazione che non rinuncia al racconto e che continua a interrogarsi, oggi, sul proprio ruolo nel tempo delle immagini, oscillando fra il recupero di stilemi classici e la libertà del linguaggio contemporaneo, tra la citazione colta e la reinvenzione visionaria del reale. “Questa mostra”, spiega il curatore Cesare Biasini Selvaggi, “è un viaggio nella pittura contemporanea, una pittura che sa leggere la storia dell’arte ma che impiega, con intelligenza e misura, anche le nuove fonti dell’immaginario: dal mondo dei fumetti all’estetica dei videogiochi, fino alle suggestioni delle realtà digitali e tridimensionali. Giganti è un’immersione nella grande pittura e nel grande disegno contemporaneo, un’esperienza immersiva nel senso più autentico: non tecnologico, ma mentale. Queste opere ci trascinano in mondi alternativi, in universi paralleli dell’immaginario che ci aiutano a guardare la realtà con occhi diversi e a immaginare futuri possibili.”

A incarnare con forza questa tensione epica e al tempo stesso riflessiva è Nicola Verlato, forse il più emblematico tra i protagonisti della pittura di grande formato. Le sue tele, costruite con rigore rinascimentale e insieme abitate da un dinamismo tutto contemporaneo, trasformano il linguaggio barocco in un teatro visionario dove convivono l’iconografia sacra e la cultura pop, la prospettiva classica e le scenografie dei videogiochi. Verlato non dipinge soltanto scene, ma epopee contemporanee: racconti di conflitti, di miti in formazione, di un’umanità sospesa tra l’estasi e la violenza, tra il culto della celebrità e la sua disintegrazione. I suoi protagonisti – spesso figure iconiche del nostro tempo, star dello spettacolo, simboli mediatici-pop come James Dean o intellettuali atipici e controcorrente, da Pier Paolo Pasolini a Ezra Pound – vengono innalzati a un rango mitologico, trasformati in eroi tragici di una modernità che oscilla continuamente tra estasi e disfatta.

Accanto a lui, Andrea Mastrovito si muove in direzione opposta, sempre di grandissima raffinatezza fomale, ma complementare. In un grande disegno realizzato con la tecnica del frottage – quella pratica antica di far affiorare immagini attraverso lo sfregamento del segno su superfici in rilievo – l’artista ricompone la figura di un soldato della Prima guerra mondiale partendo dall’impronta di una moneta. La moneta, simbolo del potere economico, diventa così la matrice stessa dell’immagine e del conflitto, il punto di contatto tra memoria e presente, tra gesto manuale e riflessione politica. In Mastrovito, il disegno è un atto di pensiero incarnato nella materia, un modo per far emergere la storia da sotto la pelle del mondo. Su un registro diverso ma altrettanto penetrante si colloca Federico Guida, pittore di narrazioni sospese, di infanzie spezzate e presagi di perdita. La sua pittura, sempre saldamente figurativa, rielabora soggetti storici e sacri in chiave intima, collocando le figure in spazi teatrali che sembrano respirare un’aria di straniante inquietudine.
A questa linea si affianca quella di Fulvio Di Piazza, che trasforma il paesaggio in organismo vivente, in un sistema di metamorfosi dove la materia sembra animarsi di volontà proprie: visioni barocche e visionarie, intrise di un immaginismo siciliano che mescola mito, natura e catastrofe.

Se questi autori rappresentano una generazione già matura della pittura italiana, il percorso trova nuova linfa nei lavori dei più giovani, come Chiara Calore ed Emanuele Giuffrida, interpreti di una sensibilità che guarda al corpo e all’identità come territori in crisi. Calore attinge a un repertorio visivo che mescola mitologia, fiaba e cultura digitale, per dar vita a figure ibride e perturbanti, sospese fra umano e non umano, come se provenissero da un altrove arcaico e insieme ultramoderno. La sua pittura, densa e opaca, sembra narrare un’umanità in trasformazione, attraversata da forze istintive e primordiali. Giuffrida, al contrario, si muove nei territori del silenzio: interni spogli, luci impietose, presenze isolate che abitano spazi ambigui e alienanti. Nei suoi quadri il tempo sembra fermarsi, e la pittura si fa esercizio di meditazione sul vuoto, sulla fragilità dell’esistere.

A questi si affiancano alcune presenze internazionali di rilievo, come Ariel Cabrera Montejo, Pete Wheeler e Santiago Ydáñez, che estendono il discorso pittorico oltre i confini italiani, riattivando i grandi temi della memoria, della storia e dell’identità. “Storia, memoria e identità sono i tre assi che attraversano la mostra”, spiega ancora Biasini Selvaggi. “Nel caso di Cabrera Montejo, la storia di Cuba, il suo passato coloniale e i miti fondativi della nazione vengono trasformati in un teatro ambiguo dove la pittura si fa strumento di indagine politica. In Ydáñez, l’identità passa attraverso il volto, dilatato, deformato, reso icona universale di vulnerabilità. In Wheeler, la memoria collettiva diventa materia di gioco e di ironia, un campo di tensione tra sacro e profano, dove le immagini si moltiplicano e si dissolvono in un cortocircuito visivo di straordinaria intensità.” Infine, un’eco più intima e drammatica risuona nelle opere di Ruth Beraha, che affronta il tema della fragilità come fondamento civile e politico. Nei suoi disegni, e in particolare nella serie Love Me Tender, il rapporto tra individuo e massa si fa materia di riflessione sulla violenza latente che abita i corpi, sulla necessità di riconoscere la vulnerabilità come condizione di resistenza e di umanità.

Così, più che una semplice rassegna, Giganti si configura come un grande affresco della pittura contemporanea: un viaggio attraverso linguaggi, sensibilità e generazioni diverse, in cui il grande formato non è un espediente spettacolare, ma il campo di una sfida, il luogo dove la pittura misura ancora la propria forza nel tempo dell’immagine liquida. In queste tele, più che nelle superfici luminose dello schermo, continua a battere – ostinata, irriducibile – la possibilità di vedere davvero.


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