16 set 2024
Intervista a Marco Bettio
Intervista tratta da Parola d'Artista
15 settembre 2024
Parola d’Artista: Per la maggior parte degli artisti, l’infanzia rappresenta il periodo d’oro in cui iniziano a manifestarsi i primi sintomi di una certa propensione ad appartenere al mondo dell’arte. È stato così anche per te? Racconta.
Marco Bettio: Ritengo che la mia infanzia abbia “segnato” naturalmente tanto il mio guardare all’arte quanto il mio modo di farne parte in quanto sistema sociale, come d'altronde sostenuto dalla psicoanalisi oltre un secolo fa e più recentemente dalle neuroscienze. Quei primi anni di vita, tra Padova e Barbarano vicentino, un paesino dei monti Berici, sono per me un territorio in cui addentrarsi con le pinze, nonostante il grosso lavoro di analisi fatto in passato. Hic sunt leones, per così dire.
Sono cresciuto in una sorta di clan tutto al femminile, madre, sorelle, zie, ecc., dove mio padre era una figura presente solo tra un viaggio e l’altro, e dove ho avvertito da subito chiara e forte la problematicità della relazione maschile-femminile, e fatto mio in una sorta di inevitabile imprinting.
Maschio che era troppo (mio padre), o troppo poco (mio nonno o mio zio), mai il giusto. Despota o ignavo. Tutto ciò ha fatto sì che anche la mia identità maschile si sia formata per sottrazione, per assonanza e antitesi, sempre e comunque attraverso lo specchio del femminile.
Ho vissuto a lungo fuori dalla mia famiglia sin da bambino, abituandomi fin da subito all’assenza di riferimenti certi, a non considerare niente come definitivo, casa, radice.
É stato sicuramente un crescere complicato, che ha portato con sé (e porta tuttora) conseguenze importanti, spesso pesanti.
L’arte, così come la cultura, hanno sempre avuto un valore in famiglia. Nella libreria di casa tra i tanti libri il mio primo ricordo relativo alla pittura: io piccolissimo con mio padre che sfogliamo un libro e lì mi cattura il primo dualismo tra un paesaggio di Van Gogh e uno di Cezanne. Mio padre che mi spiega che questo è pazzo e questo no, quale preferisci? Io opto per lo splendido Cezanne, ignorando che di lì a qualche anno avrei imbrattato chili di carta copiando e interpretando i campi e gli alberi di Van Gogh con pastelli a olio appena arrivato al liceo scientifico di Vicenza.
Dico di essere di Padova ma in realtà ho vissuto più anni da adulto a Milano di quanti ne abbia vissuti consecutivamente a Padova da ragazzo.
Da quel libro al mio bisogno di disegnare nella mia memoria non c’è tempo né spazio. Allora vivevamo in una casa in mezzo ai boschi, in provincia di Vicenza, distanti un po’ da tutto e certamente per me da tutti. Lì si è formato il mio sguardo sul naturale, sul silenzio, su una ancora inconsapevole e laica idea di sacro, legata allo stupore della ierofania, all’incontro con l’animale, il fungo, la luce che filtra dentro un bosco. Spesso, gironzolando, l’idea che avevo era quella di segnare la carta con il carbone o la matita, ma il più delle volte finiva per essere la mia retina e il mio sentire a essere segnati. Lì ritengo nasca anche l’assenza dell’essere umano dal mio lavoro, che ne rappresenta sempre e solo una presenza, una traccia o una conseguenza o un desiderio.
La mia infanzia, in sostanza, è cominciata in una città, con la socialità e quel riconoscimento sociale positivo che produce la nostra identità, e passata per un isolamento quasi monastico tra i monti Berici e terminata con la mia richiesta di trasferirmi in un collegio. Quando mi sono svegliato ero al primo anno del liceo artistico di Padova e avevo alle spalle un disastroso anno di liceo scientifico.
P.d’A.: Quali studi hai fatto?
M.B.: Ho frequentato il liceo artistico di Padova e l’accademia di belle arti di Venezia. Durante il terzo anno ho lasciato definitivamente il veneto trasferendomi in Toscana e alla fine ho rinunciato stupidamente al diploma. Cosa che rimpiango principalmente per l’insegnamento, che ho sempre amato molto. Ritengo però che, al di là delle lezioni della Vettese, o di un paio di professori del liceo, la componente più importante della mia formazione sia venuta dai “fratelli maggiori”, cercati e trovati inizialmente solo nei libri e poi nelle mostre e negli studi. In sostanza ritengo che la mia formazione mi abbia dato modo di capire cosa avrei dovuto cercare una volta liberatomene. Libri, musei, musica e cinema, e l’appetito necessario (tutt’ora presente) per nutrirmene.
P.d’A.: Ci sono statti degli incontri importanti durante la tua formazione?
M.B.: Prima dell’incontro in carne e ossa, ritengo che la carta (la mia formazione è avvenuta e si è strutturata sul libro, l’enciclopedia, la rivista di settore, non sulla rete) abbia aperto allora agli incontri più straordinari, generativi di pensiero e immagini andando a creare una mia personale cosmogonia. Allora Velazquez dialogava con Carver, Schiele e Burroughs leggevano American Psyco, o dove l’arte povera di Celant (il libro) si fondeva con le feste che si organizzavano in cantieri tra musica azioni e pittura condivisa. Ogni cosa al suo posto. E poi Manet, il disegno, Pazienza e Manara e l’arrivo di artisti, di pittori che dalla macchia arrivavano alla quasi contemporanea transavanguardia (era il ‘90 circa) e da lì alla “cronaca” tra Bill Viola e la Dumas, il lavoro dei tedeschi e la scoperta traumatica di Richter.
Tra le persone in carne e ossa il mio professore di modellato al liceo è stato importante, un personaggio particolare al quale devo le mie basi tecniche di pittura, apprese in lunghi pomeriggi nel suo studio a guardare, preparare e provare a fare. Imprimiture, oli, tempere all’uovo, le velature. Un piccolo alchimista.
A Venezia sicuramente Angela Vettese, capace di illuminare di senso ed eros artisti e opere che non avrei considerato (su tutti devo a lei il mio amore per Robert Gober e per i truisms di Jenny Holzer, che attraverso uno specchio di appropriazione, fanno parte della presentazione social dei miei lavori con interazioni tra immagini e parole, titoli doppi che moltiplicano sensi possibili). Poi figure legate all’accademia di allora senza farne parte come Mario Perniola e Massimo Cacciari oppure lo studio di Plessi, i consigli sull’osservare la luce sull’acqua tra le calli, oltre ai bellissimi ricordi di Vedova di Fabrizio Gazzarri, allora assistente di pittura di Luigi Viola e storico assistente di Emilio Vedova che aveva lasciato poco prima la sua aula nera.
P.d’A.: Che ruolo hanno ha la fotografia in quello che fai? Sei tu stesso ha scattare le immagini che usi per dipingere i tuoi quadri? Prima di metterti al cavalletto come progetti i tuoi lavori?
M.B.: Il primo grande maestro che al contrario di Velazquez, Ribera, Tiziano, Manet, o Schiele o Picasso mi viveva accanto (così mi pareva) vivendo il mio tempo è stato Gerhard Richter. Ho capito allora l’amore-odio che le generazioni precedenti hanno provato per Picasso: Quel figlio di puttana ha già fatto tutto!
Devo a lui il superamento di quell’atteggiamento tutto novecentesco e avanguardista della contrapposizione e del contrappasso, della rivoluzione. A lui la scoperta dell’interstiziale, della bellezza nello scarto minimo, in sostanza lo spirito della nostra contemporaneità.
Dopo Richter, ci sono stati gli studi sulla fotografia di un grande pittore e teorico dell’arte come Hockney, studi che sono per me tutt’ora un punto di riferimento fondamentale.
Tutto questo si è manifestato attraverso la comprensione del mio bisogno di misurare la mia pittura partendo non dal reale ma dalla bidimensionalità della fonte, in sostanza quindi dalla fotografia, osservandone così lo scarto. Il nostro è un tempo caratterizzato dalla incommensurabile quantità di immagini con le quali ci confrontiamo tutti quanti, spesso in modo totalmente passivo. La prima riflessione di conseguenza muove attorno al senso: quale senso dare (per un pittore) alla creazione di una immagine quando quotidianamente ti scontri col problema dell’eccesso di immagini che ci bombardano letteralmente in ogni momento di veglia?
Ho sempre pensato e sentito fortemente che la pittura abbia il dono e il potere di fare rallentare il passo, di fermarlo. Così come di modificare i tempi del pensiero, sciogliendolo, fluidificandolo, di creare una sorta di “vuoto abitato” consentendo connessioni che sono intuizione, memoria, sogno, tempo e pensiero altri.
Questa premessa serve a dare un senso a una ricerca di immagini quasi random nella quale spesso prediligo qualità tecniche come messa a fuoco e soprattutto risoluzione. Quando i soggetti non sono stati fotografati da me o le immagini mi arrivano da persone che seguono e conoscono il mio lavoro, la ricerca avviene attraverso la rete. Non do nessun valore particolare alla immagine di partenza, anzi, spesso mi capita di imbattermi in belle fotografie e solo l’esperienza mi ha fatto capire come difficilmente una gran foto possa diventare un buon quadro. Quello che mi interessa degli animali, ad esempio, è una postura o un espressione particolari, o qualcosa che riporti all’uomo, a me. Elementi che capita di trovare in comprimari come nel soggetto principale. Ciò che conta davvero è che il file mi permetta di lavorarci, di darmi la possibilità di “vedere” il quadro che sarà.
Questo innesca due problemi che vanno risolti attraverso la relazione tra schermo e tela, tra fotografia e pittura: composizione e scala. Il mio lavoro è una sorta di estrazione, quasi un “…e quello? L’hai visto?” e questo fa sì che diventino fondamentali tanto la composizione, o meglio, la disposizione dell’elemento o degli elementi nello spazio, quanto la scala. Un elefante può funzionare su un 15×18 ma non è detto che un macaco possa funzionare su un 180×240. Tutto questo rende il lavoro che precede la pittura vera e propria qualcosa di estremamente delicato e fondamentale: ho distrutto (spesso già in fase di abbozzo) diverse tele proprio per una scala sbagliata o per una composizione che con quella scala non funzionava.
In sostanza la fotografia è per me sì fondamentale, ma ritengo che l’aspetto più importante della fotografia sia ciò che ne faccio, da quando l’ho selezionata al momento in cui si preparano i colori.
P.d’A.: Che cosa vuol dire dipingere per te?
M.B.: É molto difficile rispondere. Indubbiamente è qualcosa con radici molto profonde e perennemente in fieri. Penso che, come per tanti di noi, la pittura, e soprattutto il disegno, abbia rappresentato inizialmente per me un “buen retiro”, un modo per sottrarmi a quanto generava disagio, sofferenza, ovvero la relazione. Il disegno, in particolar modo, credo sia stato inizialmente uno strumento per isolare e solo attraverso la sua frequentazione questo è diventato uno strumento di conoscenza. Conoscenza di me e conoscenza. Spesso, tornando all’Hockney teorico, penso alla sua riflessione sul disegno come modo pressoché unico per poter comprendere la struttura di un cespuglio, una cosa preclusa alla fotografia. La pittura, rispetto al disegno, per me è l’esplosione della polifonia, tanto da un punto di vista percettivo quanto da quello realizzativo. Nel tempo la pratica della pittura è diventato il perno attorno al quale si muove la mia vita, e l’unico elemento di quest’ultima a rimanere sempre lì, fisso e sicuro. Parlo della pratica perché sono giunto alla conclusione che la pratica del dipingere e l’opera siano due cose distinte che non necessariamente convivano sullo stesso livello. Ho trascorso diversi anni in cui aspetti della mia vita hanno reso estremamente difficile mantenere una lucidità e determinazione sufficienti per realizzare dipinti per me soddisfacenti, ciò nonostante non ho mai interrotto la pratica della pittura. Al contrario, non ho mai avuto una relazione così stretta con il cavalletto come in quel periodo, del quale ho salvato pochissimi lavori.
La pittura inoltre ritengo sia uno strumento prezioso per mantenere un ordine e una regolarità in una vita che altrimenti tende a sfuggire da tutte le parti mangiandosi il tempo deragliando.
Altra cosa importante che ho scoperto è come spesso la qualità del lavoro viene dalla pressione che accompagna quel momento. Spesso tempi stretti per mostre o commissioni fanno sì che si crei una compattezza che altrimenti non avverto così significativa, inoltre l’urgenza ha portato spesso dipinti sorprendenti. In sostanza, come in molti altri ambiti, anche nella pittura il limite, spaziale o temporale, genera una tensione quantomeno differente, se non superiore.
Per concludere, partendo dal vuoto anziché dal pieno, se penso alla mia vita senza la pittura questa mi appare priva di quel valore che le attribuisco e se penso al vivere senza il dipingere, che è moltiplicatore spesso di intenzioni, d’incontro e del fare, ho l’impressione che mi sarebbe davvero difficile trovare un motivo per alzarmi dal letto.
P.d’A.: Molte delle immagini che dipingi vengono dal mondo naturale (animali, paesaggi) perché?
M.B.: Come spesso accade nella pittura, quantomeno a me, quella che si viene a creare tra artista e opera è una relazione di tipo dialettico. Lo sviluppo della poetica, proprio come la formazione dell’identita, è il risultato di una relazione sociale e, per quanto mi riguarda, la creazione dei quadri e l’inserimento nella mia pittura di altri viventi come gli animali, ha portato con sé la nascita di un vero e proprio scambio dialettico con le tele. Ho sempre considerato il passaggio qualcosa di profondamente legato alla mia formazione, oltre che senza dubbio un soggetto molto interessante tanto per il pittore quanto per l’uomo: da intuizione a riflessione, da pulsione ad azione consapevole.
Il paesaggio è stato il mio primo forte richiamo, contenitore di pittura, per quanto non lo consideri il mio primo “soggetto”. Per la mia storia personale il paesaggio ha rappresentato, ormai molto tempo fa, il bisogno di creare quei “pezzi di mondo” che desideravo avere come tana, giaciglio, orizzonte. Un desiderio che dall’infanzia all’adolescenza inoltrata si è manifestato come appuntamento molto ricorrente nel sogno.
Sicuramente l’aver vissuto forzatamente (e traumaticamente) la mia Wolden dai sette ai quattordici anni (fosse durata i due anni due mesi e due giorni di Thoreau avrebbe limitato un po’ i danni…) ha influito moltissimo nella mia visione della natura, del Creato, per quanto allora fosse tutto più sentito che compreso.
Inizialmente ciò che ho trovato interessante nel ritrarre un animale è stata tutta una faccenda interna al dipingere. Una faccenda legata al pigmento, alle tinte. Le textures, il brillio di un’iride che rimanda all’acqua, il pelo al vapore, alle nubi o all’erba, certe pelli, o gli zoccoli, o certe parti del muso alla pietra, roccia, ghiacci, corteccia e tronchi. Insomma, quasi ad anticipare riflessioni successive, dipingere un animale, un macaco o un bonobo che gioca, o un asino che ci osserva, pittoricamente è stato combinare in modi diversi gli stessi elementi costitutivi del paesaggio trasformandolo nel ritratto di uno scimpanzè. Stessi elementi chimici da un lato, stessi pigmenti dall’altro, DNA simili da una parte, texture, tinte e gesti dall’altra.
P.d’A.: Quando prepari una mostra mettendo insieme più lavori come procedi e quali aspetti cerchi di mettere in luce accostando fra loro i lavori?
M.B.: Credo che un po’ per tutti esistano sostanzialmente due tipi di mostre: la presentazione del lavoro recente e l’esposizione di un progetto preciso. Io amo molto la relazione che viene a generarsi tra alcune tele, anche al di là di una mia progettazione a priori. Questa relazione, priva di sovrastrutture speciste, rappresenta anche una possibilità di giocare con le singole immagini generandone altre. Nel caso di una personale preferisco presentare un progetto di mostra già “concluso” in termini di opere da esporre e di allestimento. Il confronto con il curatore può (anche se non necessariamente) modificare o ricodificare il progetto, ma in sostanza rappresenta appunto un confronto dialettico. Altra cosa, per me quasi in antitesi, è la partecipazione a una collettiva, nella quale il curatore presenta la sua opera selezionando lavori di vari artisti in relazione a una sua visione. Questa per me è sempre una esperienza straordinaria, quando certamente l’integrità dell’opera risulta “rispettata”. Sono due momenti molto diversi, con ruoli e compiti molto diversi ma che concorrono entrambi a una conoscenza più complessa e composita del proprio lavoro e di sé stessi.
Per me esporre, pensare una mostra, ha una doppia valenza. Si rivolge naturalmente al fruitore, al visitatore, com’è ovvio che sia, ma non è l’unica finalità. Un po’ come dicevo per quanto riguarda le tele dipinte che finiscono per fare gruppo in studio e ti guardano accatastate o appese generando riflessioni e intuizioni, una mostra per me è anche questo: formalizzare equilibri, pesi, temi, ecc., nel modo più “pulito” e semplice, in modo da valorizzare in quel delicatissimo equilibrio il singolo pezzo, il nucleo di lavori e l’insieme-mostra, rappresenta anche una possibilità importante di comprensione. Mi rimanda all’immagine della cima che veniva lasciata sulla scia delle imbarcazioni vichinghe in modo che, guardando la direzione da cui si proveniva, si capisse se la direzione era corretta. Fare una mostra per me è gettare a mare quella cima, cercando di capire attraverso il già realizzato, il realizzabile.
P.d’A.: Ti interessa l’idea di messa in scena in quello che fai?
M.B.: Ritengo che, per quanto la tela dipinta resti un ipotetico mondo, e dunque la cui sola esistenza e presenza dovrebbe essere sufficiente a generare sguardo, comprensione e vita, è pur vero che la pittura, nella modernità, e ancor più nella contemporaneità, si è caricata di complessità tali da rendere necessario un filtro tra opera e fruitore. Questo certamente passa attraverso le parole della critica o quelle della stampa, così come dallo statement dell’artista, ma anche, in modo decisamente più immediato, dall’idea di messa in scena, un aspetto della presentazione del lavoro che per me è andato crescendo negli anni. Rappresenta certamente anche un equilibrio complesso da mantenere, nonché assolutamente necessario, tra le necessità della singola opera e quelle dell’insieme. In ogni caso trovo che la cosa sia molto affascinante.
P.d’A.: Che tipo di dialogo cerchi con lo spettatore che si trova davanti al tuo lavoro?
M.B.: E’ una faccenda talmente individuale che è complicato rispondere in un modo che non sia mero desiderio. Penso comunque che oggi ci sia davvero un estremo bisogno di arte da parte delle persone. Bisogno di una fruizione che porti con sé una traccia residua, emotiva quanto razionale, che sia però antitetica alle file chilometriche, alla ressa, al nulla di una visita guidata da tempi e itinerari predeterminati, a una concezione dell’arte come di qualcosa che tende a diventare sterile in virtù dello stress che genera. Una cosa che dico spesso è quanto vorrei che osservando una mia mostra, i dipinti facessero rallentare il passo, il respiro quanto il pensiero a chi osserva. Vorrei che questa rappresentasse qualcosa di simile a quei brevi momenti prima del sonno, o appena aperti gli occhi, quando tutto appartiene all’intuizione, al sogno, al desiderio, al potenziale. Poi si torna a correre le nostre vite, fingendo di non accorgerci che stiamo tutti rotolando.
P.d’A.: Che cosa succede alle opere quando non c’è nessuno che le osserva, l’esistenza di un opera d’arte può prescindere dalla presenza di un osservatore?
M.B.: Immagino per l’opera la stessa esistenza del televisore spento che osserva il o i padroni di casa. Probabilmente la cosa ha a che fare con le mie riflessioni sulle conseguenze della cultura giudaico-cristiana (…dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra –Genesi 1:26-28) e sul concetto di antropocene, ma l’idea che tutto debba ruotare attorno a noi lo trovo sempre più qualcosa di insensato. Spesso mi capita di estendere poeticamente certe riflessioni relative al mondo animale o alle capacità cognitive dei vegetali anche ad aria e acqua, e non posso quindi chiedermi cosa accada ai quadri quando non ci sono. L’opera è certamente un nostro artefatto, ed è destinato ad altri umani, ciononostante sono convinto che sia rimasto, soprattutto nella pratica pittorica, qualche retaggio inconsapevole di quelle pratiche sciamaniche, magiche, che facevano dell’immagine segnata o dipinta, un oggetto apotropaico, un’antenna in grado di creare un ponte con il divino, col mistero.
Si dice che una delle più grandi trovate del diavolo sia stata il convincerci di non esistere, così penso che i dipinti ci abbiano convinti di essere solo estetica e semiotica per poter fare e disfare quando ci si volta.
P.d’A.: Secondo te l’artista dove si pone nei confronti della sua opera?
M.B.: Questa è un’altra faccenda piuttosto complicata. Spesso tendo a chiedermi non solo dove io mi ponga nei confronti dell’opera ma soprattutto da chi sia in realtà costituito questo “io”. Questo perché anche la mia compagna è una artista (Sarah Ledda) e il nostro rapporto entra quotidianamente nel rispettivo lavoro in modo estremamente denso e continuo, creando un flusso ininterrotto dove non sempre è così chiaro cosa sia l’oggetto reale e cosa la sua immagine specchiata. La cosa per me più affascinante è che, nonostante questo continuo dialogo, il lavoro di ciascuno rimane qualcosa di assolutamente a sé rispetto all’altro. Forse l’unica risposta che mi sento di dare torna all’idea di antenna, di medium. Ognuno di noi è il risultato, perennemente in fieri, finché in vita, di una quantità di segnali provenienti da passato presente e futuro, dalla biologia, dall’esperienza, dalla società e da un’infinità di altre cose, e forse è proprio nel risultato di questa equazione, che va ricercato il dove ci si pone nei confronti di un’opera.
Dove ci si è posti, anzi.
paroladartista.com/2024/09/15/intervista-a-marco-bettio/
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