Tratto da Artribune - Ludovica Palmieri
4 novembre 2025
La pittura resiste. Nonostante le scelte indubbiamente caute, per non dire poco coraggiose, di gran parte dei galleristi in un periodo di mercato quantomeno fiacco e in via di grande ridefinizione, uno dei dati che emergono da questa edizione di ArtVerona è – per fortuna – una buona presenza di nuove e ottime voci nell’ambito della scena pittorica, sia italiana che straniera. Per il resto, potremmo dire, è calma piatta. Finiti i tempi delle sperimentazioni sui linguaggi, complice forse l’overdose di inutili e incomprensibili installazioni, di video noiosissimi, di opere da affrontare con il libretto di istruzioni a portata di mano, sono le nuove declinazioni della pittura italiana a confermare che il trend dell’arte (soprattutto di quella italiana) in questo momento sta riservando le espressioni più rilevanti e interessanti proprio nel campo della ridefinizione del linguaggio pittorico.
Ecco, allora, una carrellata di opere interessanti avvistate tra gli stand della fiera veronese, al netto dei tanti déja vu: non staremo infatti a citare i tanti e buoni artisti storici e ormai storicizzati, come i bellissimi e tanti Piero Gilardi, gli Adami, gli Schifano, etc., visti in grande quantità ma necessariamente da considerare di routine; così gli straordinari Bertozzi & Casoni, ormai anch’essi da considerare dei veri e propri classici e presenti in fiera in più d’uno stand, ma presenti soprattutto, in maniera massiccia, con bell’allestimento, nello stand MLB di Maria Livia Brunelli, particolarmente calzanti per un’edizione dedicata alla Conversazione e scrittura, con le classiche nature morte in ceramica appoggiate a dorsi di libri, sempre in ceramica ovviamente, spesso di artisti o sugli artisti.
Intimismo e spleen generazionale
Intanto, se dovessimo tracciare un barometro dello stato dell’arte, potremmo dire che un nuovo intimismo generazionale sembra fare da collante a molti lavori dei pittori più giovani. Ecco allora, andando necessariamente random (quasi ci aggirassimo con voi tra gli stand della fiera), nello stand della galleria 1/9unosunove, i bellissimi lavori del giovane siciliano Giovanni Bongiovanni, dove ragazzi, giovani, adolescenti sembrano vivere una realtà sospesa, metafisicamente estranea e straniata dal mondo reale, persi in una natura spesso cupa, misteriosa, vagamente minacciosa. In lontananza, a volte, si alzano nel cielo bagliori e fuochi — da veicoli, dal bosco, da presenze invisibili — simboli di un mondo in fiamme che tuttavia rimane sullo sfondo, come se non riuscisse mai a intaccare davvero la natura intima e insondabile di quei corpi assorti, dei loro silenzi e della loro inattesa, fragile innocenza.
La pittura e il disegno sono parte integrante del lavoro del milanese Mauro Valsecchi, presente nel bello stand della galleria milanese La Finestreria, che utilizza, oltre al più classico olio su tela per ritratti di grande intimità e intensità, una tecnica raffinatissima di disegno, basata su pigmenti e polveri colorate passati con sottili punte a incidere la carta.
Le opere di Valsecchi, concentrate su corpi, volti e dettagli d’intimità, esplorano quel territorio incerto in cui il confine tra vissuto e sognato si fa labile, e dove le memorie private si intrecciano a quelle collettive. Emblematici, in questo senso, La penombra di Atteone — in cui una figura femminile, colta nell’atto di chinarsi nella penombra di un bagno domestico, evoca il momento sospeso del mito, quando la visione proibita si fa metamorfosi e svelamento — e Antologia privata, vincitore della quinta edizione del Premio Massimiliano Galliani per il disegno under 40, dedicato alla memoria dell’artista scomparso a soli 37 anni nel 2020, in cui i dorsi dei libri della biblioteca dell’artista diventano una mappa simbolica della memoria collettiva; tra i titoli — Borges, Yeats, Tommaso Landolfi, Robert Kirk con il suo Regno segreto — si riconosce la cifra magico-intimista che attraversa l’intero lavoro di Valsecchi.
Tra le presenze più raffinate di questa edizione spicca poi Paul Rog, esposto nel bello stand della Candy Snake Gallery e fresco vincitore (ex aequo con Gahel Zesi, presentata da Liquid Art System) del Premio Fondazione THE BANK per la pittura contemporanea di Bassano del Grappa in partnership con ArtVerona. Anche la sua pittura, sospesa tra la precisione lenticolare della tradizione fiamminga e nordica e una sensibilità tutta contemporanea, si muove tra temi intimisti, psicologici e generazionali, restituendo con sguardo partecipe e insieme distaccato la fragilità dell’esperienza, i suoi silenzi e le sue attese. Nei suoi oli, infatti, giovani figure dai tratti coetanei all’artista, nato nel 1995, emergono come icone di una malinconia lucida e trattenuta, ritratte nel momento fragile in cui la giovinezza si fa già memoria. La cura estrema del dettaglio, della luce, dei materiali e delle posture rivela un dialogo costante con la pittura classica, ma anche la consapevolezza di una generazione che interroga il passato per comprendere il proprio presente. Ne nasce una pittura intensa e misurata, dove il tempo sembra arrestarsi in una sospensione poetica e analitica, restituendo all’immagine un’aura di verità fragile e luminosa.
Analogo al suo lavoro, sempre da Candy Snake Gallery, non possiamo non segnalare i bellissimi e tersi quadri di Agostino Rocco, artista che unisce la sapienza tecnica dei maestri toscani e fiamminghi del Quattrocento a un linguaggio sorprendentemente attuale. Nei suoi ritratti di persone inesistenti, generati da un processo che intreccia manipolazione digitale e pittura a olio, l’artista costruisce volti sospesi tra realtà e artificio, verosimiglianza e invenzione. Queste figure, perfettamente immobili eppure vibranti di una vita interiore, sembrano emergere da un tempo indefinito, illuminate da azzurri e violetti cristallini che conferiscono alla pelle un bagliore quasi ultraterreno. L’estetica della moda, la misura formale e la sottile deformazione fisiognomica si fondono in un equilibrio raro, dando vita a una pittura di intensa eleganza e quieta inquietudine, che restituisce alla figura umana la sua fragile, enigmatica bellezza.
Se Chiara Calore, da Giovanni Bonelli, rielabora con libertà e consapevolezza iconografie classiche e immagini trovate in rete, fondendo sacro e contemporaneo in una pittura colta e perturbante, fatta di corpi, animali e simboli che convivono in una dimensione arcaica e multispecie, nello stand di NP Art Lab, Leonardo Dalla Torre spinge la citazione verso una sfera più silenziosa e ambigua: nei suoi piccoli ritratti, volti e frammenti di statue sembrano emergere da un buio senza tempo, corrosi e insieme sublimi, come reliquie di un’umanità in bilico tra memoria, citazione, intimismo e dissoluzione.
Nel solco del dialogo con l’immagine e la citazione, Barbara De Vivi, veneziana, classe 1992, presentata nello stand della Galleria Poggiali e Forconi, porta una pittura raccolta e introspettiva, dove frammenti visivi, ricordi e riflessi del sé si intrecciano in una narrazione intima. Le sue figure doppie e specchiate sembrano emergere dal confine tra memoria e sogno, trasformando l’esperienza personale in un racconto universale della vulnerabilità e dell’identità.
Sempre in bilico tra intimismo, esperienza generazionale e una vena malinconica, i lavori di Paolo Caldarella, giovane artista classe 2000, esposto negli spazi della Galleria Ceravento, indagano il corpo come luogo di fragilità e disorientamento, ma anche come superficie sensibile del sentire contemporaneo, tra sensualità e malinconia. Coi suoi nudi inquieti, vulnerabili, attraversati da una tensione silenziosa, Caldarella sembra trasformare l’osservazione del corpo in un gesto di introspezione, restituendo la percezione dell’essere esposto al mondo, sospeso tra desiderio e smarrimento, tra la necessità di mostrarsi e quella di nascondersi.
Alla frontiera tra bellezza e turbamento, tra il simbolismo ottocentesco e una fisicità profondamente contemporanea, la pittura di Sarah Jérôme, esposta nello stand della Prometeo Gallery di Ida Pisani, si manifesta come un corpo vivo, attraversato da tensioni e metamorfosi. Ex danzatrice, Jérôme trasforma il gesto in materia pittorica, facendo emergere da un fluido primordiale figure che si fondono e si dissolvono, come visioni al confine tra sogno e mito. Nei suoi oli su carta da lucido spessa, ottenuti attraverso un processo di stratificazione e resistenza, la pittura diventa un atto fisico e sensuale, un esercizio di equilibrio tra grazia e ferita, tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che resta sommerso.
Paesaggi esteriori, affettivi, mentali
Numerosi anche i paesaggi, non più nei termini consueti con cui si presentavano tra anni Novanta e Duemila, ma ridefiniti, sublimati, ridotti a volte a pura astrazione. Caso emblematico i nuovi lavori, ormai completamente astratti, di Marco Petrus, nello stand di M77 Gallery, che dopo anni di descrizione razionalizzata del paesaggio urbano – soprattutto milanese – approda a una sintesi estrema, dove la città si dissolve in un ritmo visivo di linee verticali e campiture cromatiche. È un paesaggismo mentale, che conserva la struttura della metropoli solo come eco, come traccia di una geometria interiore.
Di segno opposto ma affine nella tensione emotiva è invece il lavoro di Alessandro Papetti, alla Galleria Bonelli, che continua la sua ricerca sulla fusione tra figura e paesaggio, immergendo corpi e ambienti in un’atmosfera densa e liquida, quasi monocroma. La materia pittorica, corposa e vibrante, sembra sciogliere i contorni, fino a far coincidere visione e memoria, presenza e dissolvenza.
Ormai già ben conosciuto nel sistema dell’arte italiano e sostenuto da un solido collezionismo anche all’estero, Nicola Caredda, presente nello stand di Antonio Colombo, espone uno dei suoi inconfondibili paesaggi visionari, costruiti con la precisione di un miniaturista e l’immaginario del Pop Surrealismo. In queste vedute sospese tra realtà e sogno, natura, architettura e simbolo convivono in un equilibrio ipnotico, restituendo allo sguardo la poesia inquieta di un mondo possibile.
Tra i più giovani, spicca la serie di paesaggi di Miriam Mariafioti, classe 1996, nello stand di Alessandro Bagnai, in cui la pittura diventa un dispositivo di analisi e metamorfosi del reale. L’artista utilizza mezzi eterogenei, facendo del paesaggio una pratica quasi scultorea, costruita attraverso architetture di legno e materiali assemblati che proiettano la pittura nello spazio. Nei suoi lavori, come in questo paesaggio urbano acceso da toni acidi e fluorescenti, il colore diventa strumento di alienazione e riflessione sull’artificialità del paesaggio contemporaneo, sulla sua rarefazione come spazio reale e sulla progressiva deriva verso il virtuale. Così, tra saturazione e silenzio, le sue opere si fanno visioni sospese, frammenti di una città mentale dove la realtà si smaterializza nella luce.
Ancora nello stand di Antonio Colombo, invece, Dario Maglionico presenta opere dalla forte impronta introspettiva, in bilico tra realismo e sospensione mentale. Nelle opere della serie Reificazioni, gli interni domestici si trasformano in teatri mentali, abitati da figure replicate, sovrapposte, sospese tra un gesto compiuto e il suo ricordo, luoghi in cui il tempo sembra incepparsi e le figure appaiono intrappolate in una riflessione silenziosa su sé stesse. Attraverso una pittura limpida e analitica, Maglionico costruisce una sorta di cartografia dell’invisibile, dove luce e prospettiva si piegano al ritmo incerto della memoria. Ogni ambiente diventa metafora di un luogo mentale, ogni gesto quotidiano un tentativo di afferrare l’inafferrabile.
All’interno di questa riflessione sul paesaggio come spazio interiore e della memoria, le opere dello spagnolo Antonio Matallana, presentate da Galleria Forni, offrono una pausa di silenziosa precisione e intensa concentrazione visiva. Nei suoi piccoli dipinti, realizzati con la tempera all’uovo, oggetti comuni – scatole, barattoli, saponette – assumono una presenza quasi sacrale, sospesa tra realtà e immaginazione. I colori nitidi, accesi, dalle tinte pop, in contrasto con la tecnica minuziosa da pittura fiamminga secentesca, trasformano queste nature silenti in piccole meditazioni visive sulla fragilità del tempo e sulla persistenza della memoria del quotidiano.
Magia mistero e turbamento
In una dimensione intimista, ma anche magico-fiabesca, da segnalare il lavoro del bravissimo Gherardo Quadrio Curzio (classe 2000), presente nello stand della Galleria Bonelli. Nelle sue tele e nei suoi acquerelli, figure leggere – bambini, animali, uccelli, viandanti – abitano paesaggi rarefatti e luminosi, sospesi tra sogno e rivelazione. La luce, protagonista silenziosa, muta forma come una sostanza viva, attraversando boschi, cieli e corpi con un ritmo quasi iniziatico. Tutto sembra oscillare tra il candore dell’infanzia e l’ombra della perdita, tra la quiete del nido e il brivido della metamorfosi. In questo universo visionario, dove convivono simboli, voli e apparizioni, Quadrio Curzio costruisce una pittura poetica e meditativa, che unisce lo stupore fiabesco al senso di una spiritualità laica, fatta di attese, incanti e improvvise epifanie di luce.
Anche il lavoro di Carla Bedini, pittrice di lungo corso da tempo rappresentata dalla Galleria milanese Ca’ di Fra’, si colloca in una dimensione magico-intimista, sostenuta da una raffinatissima ricerca formale: le sue opere, realizzate su pannelli di legno rivestiti di garze e trattati con stucco e pigmenti naturali, rivelano figure luminose che affiorano da mondi sospesi, in bilico tra sogno e memoria, chiarezza e mistero. Nei suoi dipinti, che “parlano sussurrando”, la materia stessa diventa respiro interiore: un luogo silenzioso dove la luce incontra la fragilità e la pittura si fa soglia verso l’inconscio, spazio di attesa e rivelazione.
E, sempre a proposito di dimensioni magico-intimistiche, come non citare (tra gli “ottimi ritorni” ritrovati in questa fiera), i quadri del bravissimo Danilo Buccella da Wizard Gallery, passato dalle atmosfere cupe e gotiche degli esordi a un nuovo animismo o naturalismo visionario, dove l’uomo e la natura tornano a fondersi in una sorta di Eden immaginario, sospeso tra sogno e memoria. Nei suoi paesaggi, dominati da tramonti che sembrano accendere l’aria, la figura umana si dissolve nella luce o ne emerge come un’apparizione, partecipe di una natura viva, grandiosa, in eterna metamorfosi.
E, sempre a proposito di ritorni, da segnalare anche i lavori di Max Rohr, astro della pittura di immagine degli anni Novanta, presentato ora da Antonio Colombo nel suo bello stand dedicato proprio ai “Pittori d’Italia, giovani giovanissimi anzi… maturi”, nel quale riaffiorano le atmosfere arcaiche e sospese del primo Novecento italiano — Carlo Carrà, Tullio Garbari, Massimo Campigli — insieme al respiro remoto dei primitivi toscani, di Duccio, Giotto e Cimabue, quando la pittura era ancora racconto e preghiera. Le sue tele, abitate da figure immobili, gesti rituali e paesaggi ancestrali, evocano un senso di memoria e di identità collettiva, come se ogni immagine appartenesse a un tempo fuori dal tempo: la forma si fa mito, la quotidianità icona, e la luce – limpida, sospesa – custodisce il silenzio originario della pittura.
Ancora un felice ritorno: Federico Guida, con tre lavori spettacolari da Liquid Art System, che segnano un ritorno a una forma di spiritualismo immanente, radicato nella natura e nei suoi simboli. Nei suoi grandi boschi innevati, dove l’animale e la natura sembrano fondersi in una medesima sostanza cosmica, Guida trasforma il paesaggio in una epifania silenziosa, un luogo di apparizione e di attesa. Le bolle sospese, le luci rarefatte, i cervi maestosi non sono semplici presenze naturalistiche, ma figure della rivelazione: segni di un equilibrio fragile tra visibile e invisibile, materia e spirito, in una dimensione intensa e contemplativa, che unisce precisione formale e tensione metafisica, dove la natura diventa spazio sacro e la visione si fa esperienza di trascendenza.
Impossibile non citare un gigante come Fulvio Di Piazza, presente sia nello stand di Giovanni Bonelli che in quello di Liquid Art System, con i suoi paesaggi antropomorfi e visionari, dove la natura si fa organismo pensante e teatro di continue metamorfosi: montagne che respirano, foreste che si piegano in corpi, nuvole che diventano architetture, in una tensione cosmica tra collasso e rinascita, distruzione e rigenerazione, che trasforma ogni quadro in un universo autosufficiente, insieme ironico e metafisico, in cui l’artista agisce come un demiurgo contemporaneo capace di reinventare la genesi del mondo. Atmosfere barocche e visionarie che si ritrovano anche negli straordinari lavori dell’artista londinese Dannielle Hodson, esposti nello stand della Galleria Brescia, dove il colore esplode come una materia viva e pulsante, capace di generare e divorare forme in un continuo processo di metamorfosi. Le sue tele, veri palcoscenici carnevaleschi affollati di figure ibride, volti che si sciolgono e corpi che si confondono in un tumulto di ironia e disperazione, memoria e sogno, rivelano una densità pittorica che unisce la libertà espressionista al gusto fiabesco e grottesco di Brueghel ed Ensor: Hodson trasforma il caos in linguaggio, costruendo un universo febbrile e cangiante in cui innocenza ed esperienza, gioco e tragedia, si fondono in un’unica, vertiginosa danza cromatica.
In quello stesso orizzonte visionario, ma filtrato attraverso una sensibilità diversa e profondamente radicata nel mito, si collocano le opere di Luciano Maia, presente nello stand di Orma Art Gallery, interamente dedicato a nuove voci dal Brasile. Nei suoi dipinti, sospesi tra leggenda e memoria, la figurazione si fa linguaggio simbolico: pesci, barche, animali e figure ibride emergono come apparizioni liquide, provenienti da un immaginario ancestrale legato alle mitologie degli encantados dell’Amazzonia. Maia trasforma il quotidiano in visione, intrecciando elementi domestici e spirituali in un racconto dove l’infanzia e il sogno diventano strumenti di conoscenza. Il colore, denso e traslucido insieme, costruisce uno spazio magico e instabile, in bilico tra il reale e il favoloso — come un rito pittorico che tenta di dare forma a ciò che ancora non ha nome.
Pittura e altri media
Alcuni artisti presenti in fiera spingono la pittura oltre i suoi confini, intrecciandola con performance, live painting, video, stoffe e collage, in una ricerca che unisce gesto, materia e immagine. È una pittura che non si limita alla superficie, ma si espande nello spazio e nel tempo del fare, trasformandosi in azione, racconto e presenza. In questa direzione si muove anche la giovanissima Irene Tabanelli, classe 2003, presentata nello stand della Serene Gallery di Lugano, che ha dato vita a una suggestiva performance di live painting, dipingendo all’interno della sua Action Box: una struttura trasparente e immersiva in cui la tela, sospesa sopra la sua testa, viene attraversata da sabbia, colore e gravità. Mentre il pubblico la osservava da fuori, il gesto pittorico si trasformava in un vero e proprio atto di creazione fisica, dove il corpo dell’artista, il ritmo del movimento e la materia stessa del colore diventavano parte integrante dell’opera. Cresciuta tra le montagne dell’Appennino e formata tra Venezia e la Francia, Tabanelli concepisce la pittura come esperienza totale, un linguaggio che nasce dal contatto diretto con la natura, con la fatica e con l’energia del gesto.
Anche Emilia Faro, pittrice che ha saputo trasformare la leggerezza e la trasparenza dell’acquerello in un linguaggio visivo più complesso e stratificato, porta in fiera, nello stand della Finestreria, un lavoro che intreccia immagine, gesto e introspezione, restituendo alla pittura la sua dimensione narrativa e simbolica. Il video If I was to escape from you (2013) — in cui una bambina, che rappresenta l’artista da piccola, scrive a terra una lettera al padre intingendo la sua treccia in un catino d’acqua — condensa con struggente semplicità i temi centrali della sua ricerca: il rapporto tra identità e memoria, tra infanzia e metamorfosi, tra ferita e rinascita. Associati al video, una serie di disegni e acquerelli ampliano il racconto in chiave metalinguistica, rievocando la natura fluida e onirica della pittura di Faro, dove la materia stessa dell’immagine diventa esperienza emotiva, diario interiore, trasparenza dell’anima.
Sul fronte della contaminazione tra pittura e immagine stampata, spicca il progetto di Silvia Argiolas, presentato nello stand di Paolo Maria Deanesi Gallery e intitolato Belle, brutte, storte, morte (2024–2025). Una grande parete di copertine di riviste come Vogue, Elle, Rolling Stone, Marie Claire, rifatte a mano, ridipinte, alterate: volti femminili iconici — da Amy Winehouse a Naomi Campbell, da Adele a Lana Del Rey, fino a Kate Moss e Britney Spears — trasformati in una galleria di sguardi imperfetti, intensi, vulnerabili. Argiolas stratifica pittura e collage in una sorta di atlante della femminilità contemporanea, dove il glamour patinato dell’immagine mediatica si incrina sotto il peso del colore, del gesto e dell’ironia. Le dive, le modelle, le star – da Amy Winehouse ad anonime figure senza nome – diventano icone deformate e umanissime, pronte a restituire una verità più cruda e affettiva del femminile.
Con questa serie, l’artista sarda costruisce una riflessione potente e disincantata sul rapporto tra identità e rappresentazione, tra desiderio e consumo visivo, trasformando la superficie delle riviste in una pittura viva e pulsante, piena di contraddizioni e umanità.
Anche i dipinti di Zehra Doğan, esposti alla Prometeo Gallery, si muovono sul confine tra pittura, collage e scrittura visiva, trasformando la materia in strumento di testimonianza. L’artista e attivista curda, imprigionata per aver raccontato la guerra attraverso le immagini, utilizza materiali poveri e di fortuna — giornali, tessuti, pigmenti naturali — per dare forma a un linguaggio diretto, poetico e politico al tempo stesso. Nei lavori esposti, come il ritratto tracciato su una pagina di quotidiano realizzato durante la detenzione o la figura femminile dipinta su stoffa, la pittura diventa atto di sopravvivenza e resistenza. Doğan intreccia memoria e identità, corpo e parola, in una narrazione che restituisce alla fragilità dei materiali una forza bruciante e necessaria.
Infine, da segnalare le, per verità poche, opere di Fiber Art, cresciuta in questi anni grazie alla sbornia di tessuto portato anche dalle recenti biennali, prepotententemente “etniche” e artigianali. Alla Galleria Brescia, le sculture-tessuto di Charlotte Worthington, classe 1957, occupano lo spazio come corpi sospesi tra pittura e tessuto, tra fragilità e potenza. Realizzate a partire da bozzetti a carboncino e costruite con seta cucita, imbottita, tagliata e sovrapposta, le opere si presentano come stendardi domestici che oscillano tra eleganza e inquietudine. L’artista intreccia frammenti figurativi, inserti metallici e dettagli dorati in una materia vibrante, che sembra respirare e deformarsi sotto la luce, proiettando ombre ambigue e perturbanti. Ex sceneggiatrice televisiva, Worthington trasforma ogni cucitura in una traccia narrativa: sul retro, fili e nastri si organizzano in costellazioni di segni, pianeti di stoffa e nodi di memoria che svelano l’altra faccia del quotidiano. La sua è una riflessione lirica e insieme tagliente sullo spazio interiore della casa, su ciò che nel familiare resta nascosto, taciuto, irrisolto.
www.artuu.it/artverona-la-pittura-resiste-e-rilancia/
Tratto da Artribune - Ludovica Palmieri
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